La maledizione del pollo


Tutte le settimane mangio il pollo in mensa.
Della mia monotonia non se ne era accorto nessuno per un po'. Ma dopo mesi e mesi di routine prandiale, un giorno le mie colleghe timidamente mi hanno chiesto perché il martedì prendo sempre il pollo. Anche se c’è la pizza. Anche se c’è la pasta al forno. Anche se ci sono i ravioli.
Forse è meglio dire la verità; continuare a nascondere un segreto del genere potrebbe essere solo dannoso.

“Ragazze, devo confessarvi una cosa” – la tensione sale, le colleghe si avvicinano formando un capannello ben riparato da orecchie indiscrete.
“Was, was….”
“Devo confidarvi che non so cucinare la carne, e in particolare il pollo”.
“Nein…non può essere!”
“E come pensi di sopravvivere come moglie in Germania? Qui se non fai della carne arrosto la domenica, possibilmente pollame e volatili simili, non sarai mai ammessa nell’olimpo delle Hausfrauen!”.
“Devi assolutamente imparare, è una vergogna!”

Il problema è che ci ho provato tante volte. Sono troppe le cosce di pollo bruciacchiate, le alette fulminate, i petti dilaniati, i bocconcini fossilizzati. E innumerevoli gli affondi nella carne cruda, le pelli flaccide, le insipidezze, le gialle polveri di curry diventate troppo sottili. Per non parlare dei contorni: peperoni così appassiti che si sono disciolti nella padella, patate al forno castagnose dure come macigni, funghi trafelati.

“Ti insegniamo noi!”
“Grazie care amiche, apprezzo il gesto ma, vedete, il mio blocco avicolo ha ragioni più complesse che non la semplice incapacità!

Ho fatto delle ricerche tra le carte di famiglia. Sono andata giù giù al sud a cercare le origini a me sconosciute, quelle di donna calabra. E parlando con comari, notari e macellari sono stata spedita nell’archivio del paese e vi ho trovato un manoscritto che narra di un’antica leggenda popolare collegata alla mia famiglia. Ve lo riporto:

Per aver schifato lu pullo arrosto di zia Carmela, tu, Giuseppina picciridda (N.D.R. nome di una lontanissima ava causa delle mie disgrazie), colpita fuissi dalla maledizione du pullu. E non importasse se già l’ottava comare era, che visitasti acchillo dia in Reggio e che ti piazzaste davanti delizie calabre condute con olio e peperoncino piccanto, tantu che ti venisti di jettare o'pecuru.
E manco importaste se propriu da zia Carmela tu già ti ingoiasti a forza nu piattuzzu di pasta al fonno e tre frittelle di melenzana.
Svergognata dicesti “no, grazie, sugnu china” a illa ca diceva “mancia ca sei sciupata” ...

(N.D.R da questo punto il manoscritto era per me, milanese, assolutamente incomprensibile ma con l’aiuto di Don Santuzzo abbiamo ricostruito la traduzione) ... e così rifiutasti il pollo all’alloro facendo un torto imperdonabile: per questo motivo sei condannata a rovinare qualsiasi pietanza a base di pollo che cucinerai in qualsiasi cucina e per qualsiasi commensale. Tu, sventurata, non saprai distinguere una coscia dal petto, renderai la pelle del pollo arrosto moscia e triste, le alette ti usciranno carbonizzate dal forno e riuscirai perfino a rovinare il pollo allo spiedo del mercato durante quelle poche centinaia di metri di tragitto fino a casa (N.D.R. importante scoperta antropologica: già da tempi remoti si compra il pollo allo spiedo già pronto al mercato).
La maledizione del pollo ti perseguiterà per tutta la vita e si trasmetterà di generazione in generazione, colpendo ogni primogenita della tua stirpe.

Non so se la maledizione del pollo sia vera ma per quello che posso ricordare ha sicuramente colpito mia madre prima di me e vedo che anche io ne sono una vittima innocente.

Per fortuna c’è la mensa aziendale che, nonostante le mura grigie e il rimbombo schiamazzante, il martedì ha sempre una coscia arrosto pronta ad aspettarmi.